PSICOLOGIA E PARKINSON: un percorso insieme per migliorare la qualitA’ di vita
Dott.ssa Barbara Bertocci
Psicologa, Psicoterapeuta, Vice Presidente Associazione per i Diritti degli Anziani (A.D.A.)
La malattia di Parkinson è un disturbo neurodegenerativo a lenta progressione che comporta una perdita di cellule nervose in alcune zone celebrali ed una conseguente riduzione di dopamina. Un’ampia percentuale della popolazione viene colpita dopo i 65 anni, ma può accadere che la patologia si manifesti anche in persone più giovani (nel 10% dei casi compare prima dei 50 anni). Questa malattia è tra le più diffuse al mondo (4 milioni di persone sono affette da Parkinson) ed a livello mondiale rappresenta la seconda patologia neurologica che produce disabilità. I sintomi si sviluppano progressivamente, in un arco di tempo che oscilla tra i 10 ed i 20 anni, comportando un graduale incremento della disabilità. Le limitazioni riguardano principalmente la sfera motoria (tremore da fermi, rallentamento dei movimenti e difficoltà ad iniziarli, rigidità, blocchi improvvisi, perdita di equilibrio e rischio di cadere). Tuttavia non sono da trascurare altre problematiche: problemi linguistici (difficoltà nel parlare e nell’esprimersi tramite messaggi non verbali); problemi neuropsicologici tra i quali la depressione, la bradifrenia (perdita di concentrazione, incapacità a creare nessi logici, tendenza alla perseverazione e rallentamento generalizzato dei processi di pensiero); la mancanza di motivazione, la difficoltà nell’espressione emotiva, l’ansia sociale e lo stress conseguente alla sintomatologia motoria.
Il forte impatto psicologico della malattia di Parkinson diventa evidente quando si prendono in considerazione alcune specifiche caratteristiche. Prima di tutto esiste una “dimensione sociale” dei sintomi che sono visibili agli altri e che suscitano reazioni immediate da parte degli osservatori. E’ poi da notare che vi è una forte interazione tra fattori psicologici e l’intensità dei sintomi: bastano dei piccoli fattori stressanti per verificare ad esempio l’aumento di tremore o di rigidità. Il non aver il controllo sui propri movimenti comporta stati emotivi estremamente negativi come la rabbia, l’ansia, la paura e l’umiliazione. Tutto questo può provocare dei veri e propri attacchi di panico e la paura irrazionale di cadere può inoltre dare origine a delle vere e proprie fobie. Molte frustrazioni sono anche originate dal non poter realizzare i propri obiettivi di vita, dal non contribuire alla gestione quotidiana della vita familiare, dal non poter svolgere un ruolo attivo nell’ambiente sociale, sia in quello più ampio della propria comunità di riferimento, sia in quello più ridotto della famiglia. Frequentemente è poi presente una dissociazione tra le sensazioni provate soggettivamente e le emozioni manifestate attraverso l’espressione vocale e facciale. Questo può dare l’impressione che le persone con malattia di Parkinson non siano interessate alle situazioni in cui sono coinvolte. Tale complicazione comporta molti problemi fra il paziente e le altre persone, anche con lo staff medico. Alla luce di queste considerazioni si capisce quanto sia difficile mantenere un’immagine di sé positiva e quanto l’ansia sociale possa influire nell’isolare sia il paziente sia chi si prende cura di lui. Inoltre, il processo psicologico da compiere per tollerare questi sintomi così dirompenti ed accettare di avere una patologia che non avrà mai una “risoluzione” definitiva, sarà molto lungo e difficoltoso soprattutto se non viene chiesto aiuto a dei professionisti qualificati. Durante questa complicata fase di accettazione della patologia spesso insorgono forti stati depressivi. Per motivazioni forse più fisiologiche che psicologiche spesso fluttuazioni d’umore e di motilità procedono parallelamente. In un intreccio così stretto di fattori biologici, psicologici e sociali si aggiungono i pregiudizi sul Parkinson legati ad una mediocre conoscenza della patologia: talvolta il Parkinson può infatti essere confuso con la demenza ed il parkinsoniano può essere emarginato in quanto è ritenuto incapace di intendere e di volere.
Ovviamente anche la qualità di vita di chi si prende cura dell’ammalato può risultare fortemente compromessa dato che assistere un parente è un processo stressogeno, in cui nel tempo sembrano esaurirsi le risorse fisiche ed economiche, cognitive ed emotive. Quando una famiglia è alle prese con una malattia cronica è un po’ come se facesse un viaggio in un paese straniero. Come all’estero alcune cose sono molto simili a quelle che sono in patria ed altre sono sconosciute o addirittura completamente diverse, analogamente, quando un membro della famiglia soffre di una malattia cronica, sotto molti aspetti la routine familiare rimane inalterata, sotto altre prospettive tutto cambia radicalmente.
Lo psicologo ha quindi un ruolo fondamentale per aiutare il parkinsoniano e chi si prende cura di lui. Accanto agli interventi psicologici sulla singola persona, (finalizzati soprattutto a ripristinare nell’individuo la fiducia in sé stesso, ad affrontare e reagire alle specifiche difficoltà interpersonali che si presentano dalla diagnosi al proseguo della malattia), sono molto utili terapie di coppia e di gruppo in quanto pongono in evidenza le complessità relazionali con sé stessi e con il mondo esterno e nello stesso modo consentono di avviare e sostenere un efficace processo di crescita, di adattamento, di cambiamento e di “reazioni creative” nei confronti delle conseguenze della malattia.
E’ tuttavia fondamentale che la psicologia prosegua la sua strada unitamente alla teoria farmacologica e quella riabilitativa motoria, indispensabili tutti per rendere più accettabile la vita del malato di Parkinson e dei suoi familiari.
Accanto a ciò lo psicologo e gli altri operatori sanitari possono informare sulla patologia in modo da sensibilizzare la cittadinanza e tutelare il diritto dei pazienti ad avere su tutto il territorio regionale livelli di assistenza dignitosi, uniformi ed omogenei.
Consapevole dei bisogni dei malati e dei loro familiari l’Associazione per i Diritti degli Anziani (A.D.A.), ha ritenuto necessario progettare interventi plurispecialistici per migliorare la loro qualità di vita. Grazie al Bando Innovazione CESVOT ed alla collaborazione con l’Università di Bologna ha realizzato presso la propria sede a Chiusi Stazione il progetto psicoeducativo di gruppo “EduPark”, già attivo in sette paesi europei (Italia, Germania, Spagna, Inghilterra, Olanda, Estonia, Finlandia). Tale intervento, complementare al trattamento medico, è stato sviluppato non solo attraverso momenti teorici utili a fornire spiegazioni su questa patologia, ma anche tramite occasioni “pratiche” in cui è stato possibile acquisire specifiche abilità riguardo alla capacità di richiedere informazioni, all’autoosservazione, alla competenza e al supporto sociale, alla gestione dell’ansia, dello stress e della depressione. Per combattere la solitudine derivante sia dalla malattia che dai pregiudizi, all’interno del percorso sono stati organizzati incontri ricreativi che hanno avuto l’obiettivo di creare possibilità di confronto e di socializzazione.
Durante questa esperienza ed il convegno gratuito del 25 maggio “il Parkinson: un dialogo a più voci tra esperti” svoltosi all’Auditorium degli Ospedali Riuniti Valdichiana (Nottola) è stato possibile sensibilizzare sia la popolazione che i professionisti della salute (che hanno ricevuto per la frequenza 6 crediti ECM) sulle tematiche psicologiche che accompagnano la malattia ponendo l’attenzione non solo sul sapere e sul saper fare, ma anche sul saper essere, dimensione fondamentale per una buona qualità di vita.
BIBLIOGRAFIA
Pio Enrico Ricci Bitti, Lorena Candini, Manuela Carlini, paolo Melani, Elisabetta Razzaboni e Consorzio EduPark (a cura di), (2006), Intervento psicoeducativo nella malattia di Parkinson: il programma EduPark, Trento, Erikson.
Questo articolo è già stato pubblicato su Wealth Planet.